18.9.06

I pericoli di una crociata

di Adriano Sofri

Davvero il Papa è inciampato senza volere in quella citazione bizantina? Eskandalon, in greco, vuol dire questo: la pietra in cui si inciampa. Oportet, o no, che gli scandali avvengano? Secondo il Vangelo, è comunque inevitabile. Guai a chi li provoca, e se poi gli offesi sono i bambini, meglio sarebbe a chi li ha scandalizzati finire nell’ abisso del mare con una macina da asino al collo.
Ecco una prima, incresciosa domanda: i credenti musulmani, e le loro guide, vanno trattati come se fossero dei bambini? Non nel senso dell’ avviso evangelico, che senza farsi piccoli come i bambini non si entrerà nel regno dei cieli: ma nel senso di una minorità che impedisca, per ora, di sapere e capire.
Tutti vedono come lo scandalo che sta per divampare sia, senza paragone più drammatico, la ripetizione di quello delle vignette blasfeme. A quel tempo pensai che una vicenda così grottesca e dalle conseguenze così enormi - devastazioni e morti - fosse dopotutto, passatemi la parola, provvidenziale, a mostrare a che filo irrisorio fosse legata la convivenza fra i modi di vita, la pace del mondo. E quale pretesto potesse fare da scintilla alla furia che preme sotto la pelle del pianeta.
Altro che diritto alla satira, altro che valutazione della migliore o peggior qualità delle vignette: c’ era un’ idea di normalità e di libertà opposta a un’ intolleranza aggressiva. La si volle esorcizzare con quella ipocrisia prudente: tener conto della sensibilità, meglio, della permalosità dei musulmani. (Infatti ormai abbiamo dimenticato quella bella nozione secondo cui esistono tanti islam quanti sono i musulmani, e li trattiamo all’ ingrosso, e nella versione più rigida).
Oltretutto è il momento di ripensarci, alla guerra mondiale per le vignette, mentre è aperta a Teheran la mostra-concorso mondiale per le più belle caricature antisemite. Un nuovo capitolo che ripercorra il copione - sdegno dei portavoce, intimazione a chiedere scusa, mobilitazione delle piazze, votazioni di consessi religiosi e politici, assalti a luoghi simbolici e persone - sostituendo ai disegnatori danesi il Papa: ecco la misura vera dell’ orlo sul quale ci sporgiamo.
Ancora più grottesco, se si ricordi che alla vigilia il Papa aveva sorprendentemente dedicato a quell’ episodio apparentemente placato, le vignette «blasfeme», una deplorazione del «dileggio del sacro» diffuso nel nostro mondo. Ora lo scandalo è avvenuto: vedremo quali confini saprà darsi, ma è chiaro fin da ora che il passo più triste sarebbe un mea culpa della Chiesa, o qualche suo pasticciato equivalente.
E’ escluso, per chiunque abbia la testa sulle spalle, che il Papa si sia proposto di suscitare una simile reazione, o anche l’ abbia soltanto messa nel conto. Questo mostra oltretutto che enorme distanza separi quello che agli uni sembra naturale e logico da quello che ad altri suona sanguinosamente oltraggioso. La risonanza (quella voluta e quella non voluta e ora deprecata) del viaggio tedesco conferma che mentre di Giovanni Paolo II contava soprattutto il carisma personale, del suo successore contano di più le parole.
Chi diceva le cose, in Wojtyla, che cosa dice, in Benedetto XVI. In due giorni successivi, a Monaco e a Ratisbona, il Papa ha detto (sulle interpretazioni ci si divide) due cose diverse e forse contrastanti. (Quella che segue è una mia liberissima ricapitolazione). A Monaco, che la concordanza fra i credenti nelle fedi monoteiste è un bene cui deve piegarsi lo stile di vita che espelle Dio e gioca con la relatività dei valori.
A Ratisbona, che c’ è una incolmata differenza tra religione cristiana (anzi, più esattamente, cattolica) e musulmana, che la combinazione fra fede e ragione che nutre l’ amore cristiano è incomparabile con il Dio inafferrabile e arbitrario che ispira la soggezione islamica. La citazione di Manuele II Paleologo, durissima com’ è, è tuttavia quasi un incidente nell’ argomentazione di Ratzinger, che sembra avere d’ occhio soprattutto l’ Europa.
La nostra ragione sa riconoscere la razionalità della natura, e questo è il fondamento della scienza; e sa riconoscere la razionalità di Dio. Noi siamo a immagine di Dio, il Dio dell’ islam è, alla lettera, inimmaginabile. Non possiamo figurarlo, e nemmeno figurarcelo. Capovolta, questa constatazione significa che il nostro Dio è fatto a nostra immagine, e dunque la nostra fede può essere razionale, anzi, come al Papa piace insistere, «ragionevole». Il Dio inimmaginato dell’ islam si nega alla ragionevolezza umana, e pretende solo obbedienza: ciò che può tradursi nell’ arbitrio dei suoi stessi fedeli, magari in una aggressività conquistatrice.
In questo «secondo discorso» - conterà anche che questo sia pronunciato in una università, l’ altro fosse l’ omelia durante una messa - il dialogo fra credenti e non credenti, eredi comuni del pensiero ebraico, greco, cristiano, illuminista, è infinitamente più ricco e favorito che non la comunanza obiettiva fra i credenti delle grandi fedi monoteiste.
Il centro del «secondo discorso» sta, mi pare, nella ripresa della vexata quaestio delle radici dell’ Europa, qui così pianamente allargata ad accogliere l’ ellenizzazione e lo stesso illuminismo ben temperato. Al punto che ci si chiede se una svelta Costituzione europea, invece di accapigliarsi sulle radici, non farebbe bene a formulare una dichiarazione di principii, una «carta di valori» desunta da quelle tortuose e robuste radici: siamo anche noi infantilmente permalosi, infatti.
Il «secondo discorso» del Papa è notevole e bello, tanto più per chi non riesce a immaginare una ricapitolazione organica di qualche millennio di storia umana, con un capo e un fondo, incapacità, o riluttanza, che ha a che fare con molti fattori, e anche essenzialmente con l’ assenza di Dio: la dichiarazione della morte di Dio richiese anche un pensiero e una prosa frammentari.
Se la mia lettura è verosimile, si capisce che il passaggio, benché così pregnante e puntiglioso, sul retaggio di Maometto, valesse soprattutto a mettere in più chiara luce l’ itinerario del cristiano e cattolico e della sua Chiesa romana (e della sua prossimità alla ortodossa); e che il Papa non si aspettasse, e tanto meno si augurasse la risonanza che, estratto dal suo contesto e diramato dalle agenzie dell’ intero pianeta, quel passo avrebbe avuto, fin nelle strade di Islamabad. Però è successo.
E se il Papa ha un’ influenza terrena, sebbene non così decisiva, come amico e fautore della pace e della fraternità, ne guadagna immediatamente una doppia come nemico: mancando lui solo, finora, alla trama dell’ inimicizia irriducibile concentrata nella «crociata» sionista e americana. Gli ingredienti della «crociata» sono andati tutti al loro posto, fino al capo romano.
Il leader di Hamas, Haniyeh, improvvisato teologo, ha avvertito ieri che il Papa è sempre stato sionista, e ha chiamato i suoi a scendere in piazza. Che cosa questo possa diventare nei luoghi di intolleranza, di persecuzione e di martirio - il martirio della testimonianza inerme, non il suo abuso assassino e suicida - vedremo: e vedremo fino a che punto i capipopolo islamisti vorranno sciogliere le briglie alle loro folle. E’ già successo dopo la deliberata «scoperta» delle vignette.
Lo scandalo, dunque: ce n’ era bisogno? Era evitabile? E che cosa farne, cercare di sopire e ridurre i danni, o inaugurare un diverso confronto con l’ islam, con gli islam? Come per un qualunque direttore di giornale al tempo delle vignette, sono in molti oggi a rimproverare al Papa una imprudenza, un fraintendimento del suo ruolo di Papa, cui non è concesso di parlare come un professore di teologia. Il fatto è che i professori di teologia ne parlano assai poco.
Alcuni, fra quelli che ci sono più simpatici, abitando in partibus infidelium, o comunque in periferia, come Hans Kung, sono persuasi che un Dio valga l’ altro, e comunque di un’ identità di Dio indipendente dalle sue diramazioni. Un Dio che ordini il proselitismo armato, che vieti il libero pensiero o la conversione come apostasia, che contenga tutto lo scibile e tutta la speranza del mondo nella lettera della sua rivelazione, è uguale solo a se stesso. Del resto, il Dio cristiano non è lo stesso nel tempo, e nel suo nome si è molto peccato: ma il suo legame col tempo è una differenza, oggi decisiva.
Il fatto è che il rispetto - o, quando è giusto, anche l’ aperta ammirazione - per l’ islam, si muta troppo spesso nella cautela e nell’ opportunismo con cui si trattano i bambini, e per di più dei bambini che hanno rubato il coltello da cucina. Benedetto XVI a Regensburg si è comportato un po’ come il bambino che vede il re nudo: può succedere anche ai Papi e agli ottuagenari.
Quante sono le autorità religiose o civili che abbiano voglia, o coraggio, per dire che certe convinzioni «religiose», come quelle che fanno credere agli assassini suicidi che il paradiso li attenda, sono ridicole assurdità? Ce ne sono di più, e a quale rischio, nel mondo islamico che nel nostro: una campagna di pubblicità progresso sarebbe inutile? Offensiva? Oriana Fallaci, a modo suo - davvero solo suo - l’ ha fatta. Non ci sono altri modi? Invidiare il senso del sacro, che sopravvivrebbe così tenacemente in certi popoli, fino a escludere come innaturale (e castigare) una scelta agnostica o atea, ha senso?
Anche la Chiesa cattolica si è rassegnata a lungo all’ idea che un’ alleanza fra le religioni la garantisse: qualcosa di non così dissimile da una Yalta delle confessioni. Non si può più fare. Lo impedisce «il grande abuso del nome di Dio». Lo scandalo che noi senza Dio provochiamo negli occhi dei musulmani (di quei musulmani) non sta solo in noi, ma nei loro occhi. Compiacersi di dare scandalo è ignobile; farsene zittire non lo è meno. E’ vero che ogni nostra conquista - di noi «occidentali» - è avvelenata dal suo complemento di perdita, debolezza, umiliazione di altri. Ma le cose cui impariamo a voler bene, la libertà delle donne, il rispetto per i bambini, la premura per le esistenze deboli e offese, sono il dono migliore che possiamo fare al nostro prossimo.
Fra queste cose migliori c’ è, a un tal punto di naturalezza da renderla inavvertita, la convivenza, l’ amore, la condivisione, fra credenti e non credenti, dentro le stesse famiglie. L’ espressione «teocon» è buffa, ma la dichiarazione di Oriana Fallaci: «Sono un’ atea cristiana», era bella. La conversazione ecumenica, gli incontri di Assisi, dovrebbero riuscire, mi permetto di dire, a considerare quelle cose migliori non come temi così delicati da urtare la suscettibilità degli interlocutori e consigliarne la dilazione sine die, ma come regali offerti loro. Penso che sia una condizione per sventare la bellicosità di chi dà già per persa la partita. La partita è sempre già persa: dunque si può sempre giocare.
A chi incita alla guerra contro la guerra santa, vorrei suggerire un pensiero troppo ovvio per essere pensato. Che della guerra santa la parola più tremenda non è santa: è guerra.

1.9.06

La Veronica di Manoppello

Oggi il papa Benedetto XVI ha fatto visita alla Veronica di Manoppello. Egli ha sostato in preghiera di fronte alla famosa reliquia.

Visto l’impossibilità di dare un minimo di credibilità storica e scientifica alla suddetta reliquia, si preferisce qui ricordare le parole di Benedetto XVI sul rischio di degradazione delle montagne.

Per il resto, è questione di fede.

28.8.06

Siamo ancora a cercare

In conclusione siamo ancora a cercare l’Uomo, colui che ci ha segnato.

Sì, c’è già stato un uomo che ci ha fatto vedere e credere di avere molte cose da dimostrare a noi stessi e a Dio. Quell’uomo disse che Dio è un padre; disse che è un creatore, l’origine dello spirito fecondo, che sa andare oltre quello che si vede.

Quell’Uomo è Gesù Cristo. L’Uomo ideale. Da quella conoscenza abbiamo iniziato a contare il tempo. Da quella data siamo ancora a cercare l’Uomo, colui che ci ha insegnato la dignità e l’amore.

Sono passate circa sessantacinque generazioni da Cristo; troppo poche? Quei mitocondri vivono freschi in noi. Non è appassito lo slancio spirituale, la forza ad andare oltre. Eppure continuiamo a maledire il cielo; continuiamo a pregare e sperare.

Quell’uomo muore perché condannato a morte; muore perché ha fatto la guerra. Quell’uomo muore di vecchiaia e malattie che non ha mai vinto: le pensa come il male; le pensa come Hitler e i tiranni…ma c’è qualcuno che pensava di averli sconfitti? Siamo ancora a cercare l’Uomo, colui che ogni volta impara a sue spese.
Quell’uomo siamo noi ogni volta. Quell’uomo è la nostra possibilità e insieme la nostra costrizione. Poi cosa ci sarà?
Già, caro Giorgio, poi cosa ci sarà?

23.8.06

Dio Esiste?

Ci sono taluni che asseriscono che Dio non esiste perché non si vede.

Qualcuno direbbe che io e la persona con cui sto parlando o che sta leggendo non respiriamo solo perché il nostro respiro non si vede , o che io e lui non viviamo solo perché il respiro con cui io e lui teniamo in vita il nostro corpo non si vede? Qualcuno direbbe che non esiste l’alito, e che questi può essere buono o cattivo, solo perché non si vede? Se quando c’è il freddo si fa fuoriuscire l’alito esso si vede, ma diversamente, se non c’è un riscontro su qualcuno, non si sa se quell’alito è buono, nel senso di gradevole all’impatto su un altro, o cattivo, intendendo per tale sgradevole all’impatto su seconde persone. Dio non esiste perché non si vede? Anche l’amore, il sentimento d’amore che un uomo prova per una donna non si vede, eppure qualcuno direbbe mai che l’innamoramento è tutta una invenzione, una bugia? Si può non conoscere questo sentimento, non averlo mai provato, ma probabilmente si è provato un sentimento di dolcezza per un bambino piccolo, oppure per una piccola creatura animale. Come si può dire che non esiste questo sentimento? Chiunque l’ha provato. Dio quindi, l’amore quindi, l’amore infinito, esiste. Come nel Diritto penale, fino a prova contraria (nella presunzione di innocenza): di colpevolezza in Diritto, di diniego nell’argomento presente. Gesù dice: “.lo spirito di verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce.. rimarrà con voi sempre (Giovanni 14, 16-17). C’è, ma se non vuoi provare a crederci che ci sia, non lo vedrai mai.

Tratto dal libro “Fede e fedeltà” di Sorella Angela Musolesi (da dioesiste.org)
“Fino a prova contraria“ dice Sorella Angela Musolesi. Vogliamo dare solo una prova contraria al suo ragionamento? Ieri un Turpolev 154 della compagnia russa Pulkovo è precipitato a 45 chilometri a nord di Donetsk, bilancio delle vittime 170 persone di cui 40 sotto i 12 anni. Nessun superstite.

Dove era Dio in quel momento? Ad ascoltare milioni di preghiere che persone illuminate nello spirito dalla fede gli rivolgono ad ogni ora del giorno e della notte o a creare universi da qualche parte? O peggio, molto peggio, non gliene frega niente dei nostri destini?

Io voglio provare a crederci ma lui si nega a me a tutti gli altri. E 40, 4000, 40000 bambini moriranno senza che lui abbia mai fermato questi ed altri ben più eclatanti ed assurdi stermini ed olocausti.

Per questo ho paura che non lo vedremo mai se non nella nostra necessità, questa si asssoluta, di dare un senso al tutto.

Commento ricevuto da Sorella Angela Musolesi il 2 Luglio 2007:
Carissimo, mi intrometto nel dibattito con lo spirito dialettico che avevano i greci: per amore del bello, per amore della Verità. Mi accetti o mi ci mandi subito? Sono Sorella Angela Musolesi. Vorrei un interscambio civile. Si può provare no? Chiedi dove era Dio nell’episodio del Turpolev 154 della compagnia russa, precipitato. Mettiamo che un padre vede suo figlio picchiare un altro. E non interviene. Puoi dire che perché non è intervenuto, non ha visto l’episodio? No, lo ha permesso. Lo ha permesso per ragioni che posso chiedergli e posso non chiedergli, può rispondermi e può non rispondermi. Ma non si può dire che non lo ha visto o che non era presente. Così è per quell’episodio. Dio non ha agito, ha permesso che capitasse. Però come si può pensare che uno che ha dato la vita alla gente, non sapesse cosa stesse succedendo? Chissà quanti avvisi, in quanti tempi, aveva dato prima. Incuria degli uomini? Soldi intastati invece di essere investiti in procedure di ammodernizzazione o di ispezione? Non so. Ma perché dare sempre la colpa a Dio o prendere spunto da qualsiasi catastrofe per addurne una sua assenza? Ho scritto “chissà quanti avvisi, in quanti tempi..”. Non l’ho scritto pour parler. Ho seguito da vicino casi di persone, anche ragazzi, gente che conoscevo, che sono morti. Bisogna essere molto addentro alle cose, per capirle. Spesso non lo siamo, e non per mancanza di buona volontà. Ciò a parte.. dicevo di queste persone che seguivo da vicino. Dio aveva dato loro diverse opportunità per maturare, per crescere, per evolversi: non le avevano colte. Ed era sopraggiunta la morte. E gli amici hanno insultato Dio. Si sono allontanati dalla fede perché “Dio lo ha ammazzato”. Assurdo. Ma non posso scendere nei dettagli, anche con loro. Però so con certezza che Dio aveva ragione. E’ facile dare la colpa a Dio, è difficile accettarne la sovranità su di noi e accettare che decida per noi. Soprattutto quest’ultima cosa, è difficile. Tutti noi –voi- vorremmo decidere ciò che è giusto e non giusto: o no?

La mia risposta:
Sorella Angela grazie per le tue parole.

Ti risponderò presto. Abbi fede!

15.8.06

Le domande a cui non troverò una risposta (beta)

- Esiste Dio?
- Se esiste perché non si mostra direttamente?
- Se non esiste perché nella storia dell’umanità il trascendente ha avuto un ruolo così importante?
- Il desiderio del trascendente è stato utilizzato dal Potere per soggiogare i singoli e i popoli?
- I miracoli in cosa consistono?
- Può non-credente essere un giusto?
- E sulla base di quali idealità?
- Si può essere cristiani e non credere nel Dio-padre?
(…continua…)

COMMENTO Ricevuto (su altro Blog)

Sono Sorella Angela Musolesi.
Vorrei intromettermi con qualche risposta.
Dio esiste? Sì
Se esiste perché non si mostra direttamente?
Per farti capire da un sordo come fai? Impari la sua lingua, gesticoli come lui capirti. Cioè. Devi adattare il tuo agire a lui, se non sei identico a lui. Dio è spirito, noi abbiamo un corpo. Perché ti aspetti di vedere un corpo da uno spirito. Dio è infinito amore. Essendo spirito, di solito si mostra indirettamente, cioè agisce sulla mente e sul corpo delle persone. Attraverso essi agisce nel mondo. Attraverso le persone buone, che agiscono in comunione con Lui, Dio si incarna.
Si è incarnato in modo “forte”, particolare, anche tanti anni fa, in un uomo che la scrittura Sacra chiama Cristo. In quel caso Dio si è mostrato direttamente, guarendo tanti all’istante e resuscitando dai morti uno che era morto da 4 giorni. Ogni tanto il Cristo si fa vedere anche adesso, e si è fatto vedere nel corso dei secoli, con il suo corpo di carne, a dei Santi, a gente che di solito credeva in lui, ma talora anche a gente che non credeva in lui, diventata poi Santa dopo che lo ha visto. La Chiesa non ha preso queste persone per dei visionari, o per dei tossici che hanno preso delle sostanze alteranti, tanto che li ha proclamati Santi. Adesso quelli lì lo vedono sempre. Noi….potrebbe capitare anche a noi: molto dipende da noi, qualcosa anche da Dio.


Altra domanda: il desiderio (?). Risposta: Qualche volta sì
I miracoli in che cosa consistono? In ciò che è impossibile alla scienza, alla medicina, alla psicologia. In ciò che supera e trascende la natura.
Per i miracoli eucaristici ti consiglio di vedere nel nostro sito www.dioesiste.org sotto “miracoli eucaristici“

11.8.06

Cosa significa pensare

Si può arrivare a capire che cosa significhi pensare solamente quando siamo noi stessi a pensare e per poter arrivare a pensare dobbiamo essere pronti e ben disposti ad immergerci in questa attività che più di ogni altra ci distingue dalle fiere; proprio come loro, anche noi abbiamo un corpo, anche noi proviamo degli impulsi biologici, anche noi viviamo: ma ciò che solo noi possiamo fare e anzi dobbiamo fare, per porci su un gradino incommensurabilmente superiore, è pensare, interrogarci su ciò che ci circonda e, soprattutto, sulla nostra esistenza, che schizza via in ogni istante ed è incontenibile tanto più si cerca di capirla, proprio come l’acqua ci sfugge da ogni parte quando proviamo a stringerla in mano.

Nel pensare risiede la dignità degli esseri umani e, a maggior ragione, non dobbiamo far finta di niente, perché come uomini la questione ci riguarda tutti: e il pensiero padre di tutti gli altri è quello filosofico, poiché tenta di interpretare la realtà, nella quale a pieno titolo rientrano tutte le altre forme di pensiero (la matematica, la fisica, la storia, ecc.); la filosofia è al di sopra di ogni altro pensiero perché non si limita al tentativo di illustrare il funzionamento della realtà, ma tenta anche di spiegare perché la realtà proceda in quel modo e nel far ciò fa leva sulla ragione, cioè sulla facoltà che più di ogni altra è tutta nostra: la fisica prova ad interpretare il mondo, la religione prova a motivarlo avvalendosi di espedienti extra-razionali; la filosofia, dal canto suo, prova a interpretarlo e a motivarlo basandosi esclusivamente sulla forza della ragione, poca magari, incapace di gettar luce su ogni cosa, ma tanto più apprezzabile se si tiene in considerazione che è l’unico baluardo conoscitivo di cui disponiamo, l’unico faro a cui far riferimento nel nostro percorso.

La filosofia rifugge dai postulati e in ciò risiede la sua grandezza: non accetta nulla per scontato, nè che per due punti passi una sola retta né che il mondo esista o sia stato creato da Dio; non solo prova a risolvere problemi, ma ne solleva anche di sempre nuovi, senza mai accontentarsi dei provvisori traguardi cui è pervenuta. Ogni volta che chiarisce un problema, quasi per insoddisfazione, apre nuovi fronti, semina nuovi dubbi e subito si getta a capofitto per risolverli. Ed è proprio nella capacità di seminar dubbi più che di raccogliere certezze che si rivela diversa da ogni altra disciplina: solo partendo dai dubbi e sollevandone di sempre nuovi si potrà giungere a qualche fioca certezza; se si parte da certezze si fanno conquiste che poggiano su fondamenta instabili, poiché come assolutamente certo non bisogna prendere nulla, ma bisogna muoversi con circospezione e con assennatezza, vagliando ogni singola ipotesi con la propria ragione, senza credere, ingenuamente, che la verità stia sempre e solo da una parte.

Ma la filosofia ha, secondo me, il dovere di interrogarsi sulla realtà di ogni giorno, per provare a risolvere questioni pratiche, senza avvitarsi su riflessioni sganciate totalmente dal mondo che ci circonda; una filosofia che invece scivolasse nei meandri dell’astrattismo più radicale e si scatenasse in fantasmagoriche descrizioni di realtà che non sono quelle umane andrebbe respinta con impeto, in quanto l’uomo è pensiero calato nella materia e deve pertanto tenere sempre conto del mondo materiale di cui è parte integrante e deve provare a conferirgli una chiave di lettura accessibile a tutti gli altri uomini. Proprio in questo risiede la specificità del pensiero filosofico: nel sollevare dubbi (e nel provare a risolverli) su tutto ciò che riguarda l’uomo e le sue realizzazioni. Pertanto la filosofia non è un sapere autonomo, dotato di suoi oggetti specifici e inaccostabili a quelli delle altre discipline: tutti gli altri saperi sono anzi suoi figli, in quanto tutti mirano, in diversi modi e dietro maschere differenti, a raggiungere un barlume di sapere in diversi campi e la ricerca del sapere è prerogativa peculiare della filosofia.

Può poi anche chiarire le altre discipline e i loro oggetti: la matematica lavora coi numeri senza, propriamente, chiedersi che cosa siano; spetta alla filosofia condurre un’indagine sulla loro essenza e sul loro significato, tanto più che se non si provasse filosoficamente ad interpretare il significato dei numeri, che senso avrebbe la matematica? Ma la filosofia può anche essere intesa come un ponte di raccordo tra le altre discipline, come un punto di riferimento costante a cui volgere lo sguardo quando ci si sente disorientati: la fisica legge il mondo in termini matematici, ma è solo la filosofia che può chiarire (o almeno avanzare delle ipotesi) il perché.

Questi sono alcuni dei tanti motivi per cui vale la pena sottoporsi all’insegnamento della filosofia, insegnamento che però non deve essere impartito come filastrocca mnemonica dei vari filosofi né come un oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una verità definitiva. Proprio per questo lo studio dei vari filosofi va presentato come modello di pensiero a cui ispirarsi, non come verità indiscutibile dalla parte della quale schierarsi fanaticamente e fare il tifo, tanto più che la maggior parte dei sistemi filosofici elaborati nel corso della storia, letti in trasparenza con il senno di poi, risultano rigurgitanti di errori; se un matematico o un fisico commettono un errore nell’elaborazione di un teorema sono destinati ad inabissarsi sui fondali dell’oblìo, mentre ancora oggi si continuano a studiare filosofi i cui sistemi sono traboccanti di errori, ma il cui merito risiede appunto nell’essersi sforzati di conferire un senso al mondo intero, spiegandone i motivi e le modalità.

La filosofia non va dunque intesa come un mero arricchimento culturale, come uno strumento per pavoneggiarsi tra saccenti, ma, viceversa, deve essere un mezzo per incentivare e propagandare il pensiero, per dare spunti per la riflessione, per far nascere nuovi individui che non si riducano a fare il tifo per Kant piuttosto che per Hegel, ma che provino a dare nuove interpretazioni del mondo, tenendo conto delle riflessioni e degli errori di Kant e di Hegel e, in generale, degli altri filosofi del passato. Naturalmente, poiché tutti gli uomini in quanto uomini dispongono della facoltà del pensare, forse la più piacevole tra quelle di cui siamo dotati, è bene che tutti abbiano la possibilità di entrare in contatto con la filosofia, la quale non deve dunque essere intesa come attività riservata a pochi eletti, ma come prerogativa di ogni uomo, poiché ciascuno di noi, a modo suo, è filosofo e agisce nel mondo ispirato da una propria e personale concezione della realtà. Insegnare a pensare, probabilmente, è impossibile: la prova forse più lampante di questa asserzione è rintracciabile nel fatto che buona parte delle persone che escono dalle scuole sono totalmente incapaci di pensare con la propria testa, mentre uomini che non hanno mai avuto modo di frequentare gli ambienti scolastici e i professori preposti all’insegnamento sono in grado di formulare pensieri di straordinaria profondità.

Il professore di filosofia, pertanto, non può insegnare a pensare, ma può suscitare l’interesse a pensare, può, facendo accostare gli allievi alle grandi riflessioni della storia, indurli a volersi interrogare su ogni cosa. In altri termini, con la facoltà del pensiero ci si nasce, la si può solo affinare e a questo servono i professori.

(da filosofico.net)

1.8.06

Coltivare il dubbio

Non esiste la verità assoluta ed indiscutibile. Tutto è relativo allo stato della conoscenza e alla coscienza di questo stato.

L’unico atteggiamento che ci può difendere dalle verità “assolute” è il dubbio. ll dubbio ricercato ed eretto a scudo contro lo sfruttamento (colpevole) dell’ignoranza (che in se non è una colpa) e contro le distorsioni-manipolazioni-mistificazioni della realtà che avvengono in forme sempre più raffinate e globalizzate.

Un’esistenza basata sul dubbio è irta di ostacoli al contrario di una fondata sulla "verità che illumina il cammino", eppure solo il dubbio appare immune dall’illusione della verità.

Ovviamente l’uomo che ha delle certezze si ritiene fortunato in realtà è doppiamente fortunato l’uomo che coltiva il dubbio. Il primo va incontro a pericolosi fanatismi o alla disillusione l’altro se usa la ragione va incontro ad una empirica visione della sfaccettata realtà.

Parcheggio 64 (p64.pietrob.net) coltiva e sollecita il dubbio.

(Updated: 30/1/2007)

17.4.06

Guerre, malaffare e religione

di Andrea Di Paola

Vi invito ad una riflessione sul nesso tra guerre, malaffare e religioni facendo appello alla Vostra onestà intellettuale, allo spirito di ricerca ed al sincero impegno per la Pace, la Cultura e la Prosperità per tutti gli esseri umani.

Partiamo da una premessa: converrete che il valore di qualsiasi religione debba essere misurato dalla capacità di renderne felici i seguaci e di consentire una pacifica e felice convivenza per tutti.

Le tre principali religioni monoteistiche hanno da sempre fallito questo obbiettivo: basti pensare a ciò che è accaduto e accade tuttora a Gerusalemme dal tempo delle crociate all’intifada odierna, in Jugoslavia recentemente, in Medio Oriente e in America per lo scontro tra teocons americani e terroristi islamici ed in moltissime altre occasioni da secoli e per secoli.

Qualche altro esempio: la maggior parte dei mafiosi e dei camorristi sono ferventi cattolici osservanti, molti politici corrotti altrettanto, alcuni imprenditori da sempre definiti dei buoni cattolici hanno dilapidato le fortune di centinaia di migliaia di risparmiatori, diversi appartenenti all’Opus Dei si distinguono e senz’altro si aggregano spinti perlopiù da avidità e opportunismo e potremmo citarne un infinità.


Tutto ciò si riscontra anche nelle altre religioni monoteistiche ed ovviamente esistono delle eccezioni, ma nella maggior parte dei casi chi è dominato dal mondo (scheda sottostante) dell’animalità, della collera o dell’avidità resta tale e lo stesso si può dire di chi, per nostra e loro fortuna, è dominato dai mondi più alti, come il mondo di studio, il mondo della compassione (“bodhisattva”) come hanno ben dimostrato Madre Teresa di Calcutta e tantissime altre persone.

Perche?

Proverò a spiegarlo: le religioni monoteistiche maggiormente diffuse, nonostante le ottime intenzioni, non sono assolutamente in grado di cambiare il cuore della stragrande maggioranza dei loro seguaci.

Non ha senso, perciò, distinguere tra buoni e cattivi cattolici, buoni e cattivi musulmani, buoni e cattivi ebrei, perché tutti gli esseri umani sono dotati dei dieci mondi e in assenza dello strumento appropriato assai difficilmente potranno fare la rivoluzione umana.

Il buddismo di Nichiren Daishonin è una religione antropocentrica che consente realmente a chiunque intenda praticarlo correttamente – fede, pratica e studio - di realizzare la propria rivoluzione umana, ovvero di cambiare positivamente il proprio cuore e di illuminare i mondi bassi e, cosa fondamentale per la propria felicità, di armonizzarsi spontaneamente alla Legge di causa ed effetto che disciplina l’universo e con ciò costituisce la risposta migliore, fino a prova contraria, all’esigenza di Pace e di felicità per tutto il genere umano fornendo, oltre alla prova teorica e documentale, la prova concreta della sua efficacia.

Per approfondire: “Il Budda nello specchio” Ed. Esperia; “I dieci mondi” Ed. Esperia; “I misteri di nascita e morte” Ed. Esperia.


Con i migliori saluti e auguri,
Andrea Di Paola

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I dieci mondi e il mutuo possesso dei dieci mondi

Il concetto, noto come “i dieci mondi”, rappresenta uno dei modi in cui il Buddismo spiega la vita. Sono i dieci stati o condizioni vitali che si manifestano in tutti gli aspetti dell’esistenza. Ognuno li possiede potenzialmente tutti e dieci, e in ogni momento passiamo dall’uno all’altro. Questo vuol dire che in ogni momento uno dei dieci mondi viene manifestato, mentre gli altri nove rimangono latenti. Partendo dal più basso al più alto, essi sono:

Inferno. È la condizione di sofferenza e disperazione in cui abbiamo la percezione di non essere liberi di agire; è caratterizzata dall’impulso di distruggere noi stessi e tutto ciò che ci circonda.

Avidità. L’avidità è la condizione in cui ci sentiamo dominati da un insaziabile e incontrollabile desiderio di denaro, potere, posizione sociale o di qualunque altra cosa.

Animalità. In questo stato, siamo governati dall’istinto. Non abbiamo freni né la capacità di elaborare pensieri a lunga scadenza. Nel mondo dell’Animalità, si agisce secondo la legge della giungla, per così dire: senza esitare ad approfittare di quelli più deboli di noi e ad adulare quelli più forti.

Collera. In questo stato emerge la consapevolezza dell’io, ma è un io egoista, avido, stravolto, determinato a superare gli altri a tutti i costi e a considerare tutto come una potenziale minaccia per se stesso. In questo stato si tende a dare valore solo a noi stessi e tendiamo a disprezzare gli altri. Siamo fortemente attaccati all’idea della nostra stessa superiorità e non si ammette che qualcuno ci superi in qualcosa.

Umanità (definita anche Tranquillità). È una condizione vitale piatta dalla quale si scivola con facilità negli altri quattro mondi più bassi. Se in genere in questo stato ci comportiamo in modo umano, rimaniamo estremamente vulnerabili alle forti influenze esterne.

Paradiso (o Estasi). Questo è uno stato di gioia intensa derivante ad esempio dalla realizzazione di un desiderio, da una sensazione di benessere fisico, o da una intima soddisfazione. Anche se intensa, la gioia sperimentata in questo stato ha vita breve ed è anche vulnerabile alle influenze esterne.

I sei stati che vanno dall’Inferno al Paradiso sono definiti i sei sentieri o i sei mondi inferiori. Hanno in comune il fatto che la loro comparsa o scomparsa è legata alle circostanze esterne. Prendiamo il caso di un uomo ossessionato dal desiderio di trovare qualcuno che lo ami (Avidità). Quando alla fine incontra davvero questa persona, si sente in estasi e realizzato (Paradiso). Con il passare del tempo, compaiono sulla scena dei rivali e lui è attanagliato dalla gelosia (Collera). Alla fine il suo senso del possesso allontana da lui la persona amata. Distrutto dalla disperazione (Inferno), sente che la vita ha perso ogni valore. In questo caso, per qualche tempo si passa da uno all’altro di questi sei sentieri senza neanche rendersi conto di essere dominati dalle proprie reazioni all’ambiente. Qualunque felicità o soddisfazione ottenuta in questi stati dipende totalmente dalle circostanze ed è quindi effimera e soggetta al mutamento.

In questi sei mondi inferiori, noi basiamo la nostra intera felicità, e quindi la nostra stessa identità, su elementi esterni.
I due stati successivi, Studio e Illuminazione Parziale, emergono quando ci rendiamo conto che tutto ciò che sperimentiamo nei sei sentieri è fugace, e iniziamo a cercare una verità duratura. Questi due stati, più i due successivi, Bodhisattva e Buddità, complessivamente vengono definiti i quattro mondi nobili. A differenza dei sei sentieri, che sono reazioni passive all’ambiente, questi quattro stati più elevati vengono ottenuti attraverso uno sforzo intenzionale.

Studio. In questo stato, cerchiamo la verità attraverso gli insegnamenti o le esperienze degli altri.

Illuminazione Parziale o Realizzazione. Questo stato è simile allo Studio, tranne per il fatto che cerchiamo la verità non attraverso gli insegnamenti di altri, ma attraverso la nostra stessa percezione diretta del mondo.
Studio e Illuminazione Parziale sono chiamati i “due veicoli”. Avendo compreso la fugacità delle cose, le persone in questi stati hanno conquistato un livello di indipendenza e non sono più prigionieri delle proprie reazioni, come invece nei sei sentieri. Spesso, però, tendono a sentirsi superiori alle persone legate ai sei sentieri che non hanno ancora raggiunto questo livello di comprensione. In più, la loro ricerca della verità è principalmente orientata verso se stessi, quindi c’è un grande potenziale di egoismo in questi due stati, e le persone possono raggiungere una soddisfazione con i loro progressi senza scoprire il potenziale più alto della vita umana nel nono e decimo mondo.

Bodhisattva. I Bodhisattva sono coloro che aspirano a ottenere l’illuminazione e nello stesso tempo sono altrettanto determinate a mettere tutti gli altri esseri in grado di fare la stessa cosa. Consapevoli dei legami che ci uniscono a tutti gli altri, in questo stato ci rendiamo conto che qualunque felicità proviamo da soli è incompleta, e ci dedichiamo ad alleviare le sofferenze degli altri. Chi si trova in questo stato trova la maggiore soddisfazione in un comportamento altruistico.
Gli stati dall’Inferno al Bodhisattva sono complessivamente chiamati “i nove mondi”. Questa espressione viene spesso usata in contrapposizione al decimo mondo, lo stato illuminato di Buddità.

Buddità. La Buddità è uno stato dinamico difficile da descrivere. Possiamo parzialmente descriverlo come uno stato di libertà perfetta, in cui siamo illuminati alla verità ultima della vita. È caratterizzato da una compassione infinita e da una saggezza sconfinata. In questo stato, possiamo trasformare armoniosamente ciò che dal punto di vista dei nove mondi appare come una contraddizione insolubile. Un sutra buddista descrive gli attributi della vita del Budda: un vero io, una libertà perfetta dai legami karmici per tutta l’eternità, una vita purificata dall’illusione, e una felicità assoluta. Inoltre, la condizione di Buddità viene fisicamente espresso nella Via del Bodhisattva o azioni di un Bodhisattva.


Cos'è il mutuo possesso dei dieci mondi?

I dieci mondi originariamente erano immaginati come regni fisicamente distinti, in cui gli esseri umani nascevano a seconda del risultato derivante dal karma accumulato. Ad esempio, gli esseri umani nascevano nel mondo dell’Umanità, gli animali nel mondo dell’Animalità e gli dei nel mondo del Paradiso. Nel Buddismo di Nichiren Daishonin, i dieci mondi sono invece considerati condizioni vitali che tutte le persone potenzialmente possono sperimentare. In qualunque momento, uno dei dieci mondi si manifesterà e gli altri nove saranno latenti, ma costante rimane la potenziale possibilità di un cambiamento.

Questo principio viene espresso anche come mutuo possesso dei dieci mondi, secondo cui ognuno dei dieci mondi possiede in sé tutti gli altri. Ad esempio, una persona che si trova nella condizione di Inferno può, un attimo dopo, rimanere all’Inferno oppure manifestare uno qualunque degli altri stati. L’implicazione fondamentale di questo principio è che tutte le persone, in qualunque condizione vitale si trovino, hanno il costante potenziale di manifestare la Buddità. E' altrettanto importante il fatto che la Buddità si trova nella realtà delle nostre vite negli altri nove mondi, non in qualche luogo a sé stante.

Nel corso della giornata, sperimentiamo diversi stati di momento in momento, secondo la nostra interazione con l’ambiente. La vista della sofferenza altrui può richiamare il mondo compassionevole del Bodhisattva, e la perdita di una persona cara può ricacciarci nell’Inferno. Ad ogni modo, tutti noi abbiamo uno o più mondi intorno ai quali di solito ruotano le nostre attività e alle quali tendiamo a tornare quando gli stimoli esterni si placano. Si tratta della tendenza vitale di base di ognuno, e ognuno l’ha stabilita attraverso le proprie azioni precedenti. Le vite di alcuni ruotano intorno ai tre sentieri cattivi, alcuni oscillano nei sei mondi inferiori, e altri sono principalmente motivati dal desiderio di cercare la verità che caratterizza i due veicoli. Lo scopo della pratica buddista è quello di elevare la tendenza vitale di base e alla fine stabilire la Buddità come condizione di base di ognuno.

Stabilizzare la Buddità come nostra condizione di base non significa liberarsi degli altri nove mondi. Tutti questi stati sono aspetti integranti e necessari della vita. Senza sperimentare le sofferenze dell’Inferno, non potremmo mai provare una sincera compassione per gli altri. Senza i desideri istintivi rappresentati da Avidità e Animalità, dimenticheremmo di mangiare, dormire e riprodurci, arrivando ben presto all’estinzione. Anche se realizziamo la Buddità come nostra tendenza vitale di base, continueremo a sperimentare le gioie e i dolori dei nove mondi. La differenza è che essi non ci domineranno, e noi non ci definiremo in funzione di essi. Basandoci sulla tendenza vitale della Buddità, i nostri nove mondi si armonizzeranno e agiranno a beneficio nostro e di chi ci circonda


(Pubblicato in origine su ItaliaBlogOltre)

2.4.06

Dio Padre (o Padrino?)

di Roberto Scarpinato

[da MicroMega n°5 del 30/3/2006]

In Italia, tranne poche minoranze, si è cattolici non per scelta ma per destino culturale. Si nasce e si muore senza interrogarsi quasi mai sui temi della religione: si attraversa un'esistenza scandita dal succedersi di riti battesimi, matrimoni, comunioni, funerali dei quali si è quasi smarrito il senso. Riti che in fondo sembrano servire a tenerci compagnia, a non farci sentire soli nella vita.

Ho cominciato a riflettere sulla religione, e in particolare sul cattolicesimo, quando per motivi professionali ho iniziato a frequentare gli assassini ed ho dovuto constatare che tanti di loro erano cattolici ferventi e praticanti. All'inizio si trattava di killer e di capi della cosiddetta mafia militare, per lo più d'estrazione popolare e di modesta cultura. Ma poi venne la stagione dei colletti bianchi, degli appartenenti alla borghesia mafiosa. Persone che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti. Non sparano in prima persona, ma proteggono gli assassini, li aiutano ad evitare le condanne, fanno con loro affari lucrosi, e a volte chiedono agli specialisti della violenza materiale di rimuovere qualche ostacolo che si trova lungo la strada e che non può essere eliminato con metodi incruenti. Il loro motto è: «Dio sa che sono loro che vogliono farsi ammazzare». Ricordo tra i tanti uno dei più rinomati medici di Palermo, che diventò collaboratore e confessò di essere un mafioso. Lui frequentava la Chiesa e raccontava che suo zio, il quale era pure un capomafia, si recava a pregare sulle tombe di coloro che «era stato costretto ad abbattere».

Quando le indagini alzarono il velo anche sulle complicità di uomini politici potentjssimi, dovetti constatare, passando di sorpresa in sorpresa, che taluni di loro, i quali avevano l'abitudine di recarsi a messa ogni mattina, a volte, dopo essersi fatti l'ultimo segno di croce, si affrettavano a partecipare a summit mafiosi nel corso dei quali si discuteva anche di omicidi.


A questo punto sono stato costretto a pormi una domanda: ma come è possibile che carnefici e vittime preghino lo stesso Dio e che ciascuno di loro sia in pace con se stesso? A volte certe risposte sono sotto il nostro sguardo, ma noi siamo ciechi e non abbiamo occhi per vederle. Il mondo, infatti, è pieno di assassini -ben più feroci di quelli da me conosciuti nella mia esperienza palermitana- che credono in Dio, sono cattolici praticanti, sono in pace con se stessi e che muoiono nel proprio letto, convinti di avere bene operato, confermati in tale convinzione da preti e vescovi che mai li hanno criticati in vita, e li hanno benedetti in morte.

Basterà qualche esempio: che dire del dittatore Pinochet, il quale ha sempre dichiarato di essere un buon cattolico, di essere in pace con se stesso e con Dio, e di avere operato per il bene della patria? E che dire dei generali argentini, che trucidarono migliaia di giovani ordinando che fossero scaraventati da aerei in volo nell'oceano? Nel corso dei rari processi ai quali furono sottoposti, alcuni di questi militari per esibire la loro patente di cattolicità raccontarono di avere iniziato a narcotizzare le vittime, prima di scaraventarle nell'oceano, raccogliendo il suggerimento di alcuni prelati i quali avevano fatto loro notare quanto fosse anticristiano ucciderle in stato di veglia in quel modo crudele.

Il problema dei dittatori latinoamericani non può essere minimizzato, ridimensionandolo alla follia morale di alcune persone particolarmente efferate. La storia insegna che le giunte militari argentine, brasiliane e cilene furono il braccio armato di borghesie latinoamericane che non hanno esitato a fare ricorso al genocidio di massa per difendere il sistema di privilegi che veniva messo in pericolo dalle rivendicazioni popolari. Borghesie di milioni di cattolici, praticanti, che ancora oggi considerano Pinochet, Videla e gli altri militari degli eroi della patria. Per questo motivo non è stato possibile processarli prima ed è difficile processarli oggi: sarebbe come processare un'intera parte della società latinoamericana. Dunque, ritornando alle mie ben più modeste frequentazioni con gli assassini, di che cosa mi meravigliavo?

Il quesito iniziale, ovvero come sia possibile che vittime e carnefici preghino lo stesso Dio e siano in pace con se stessi, non riguardava più soltanto Palermo e la realtà mafiosa, ma si dilatava nello spazio e nel tempo diventando universale. Ed era un quesito che almeno per me esigeva una risposta.
La risposta che ho tentato di darmi è questa: in realtà vittime e carnefici non pregano lo stesso Dio, ma un Dio diverso.

Questo miracolo della moltiplicazione di Dio, della coesistenza di più di un Dio nella stessa Chiesa, avviene grazie al fatto che nella Chiesa cattolica il rapporto tra Dio e il fedele è gestito da un mediatore culturale: un sacerdote, un prelato. Ogni strato, ogni segmento della società, ogni tribù sociale esprime dal suo interno il proprio mediatore culturale con Dio, che dunque è portatore della stessa visione della vita dell'ambiente che lo ha espresso. Esiste così un Dio dei potenti, e un Dio degli impotenti. Un Dio dei mafiosi, e un Dio degli antimafiosi. Un Dio dei dittatori, e un Dio degli oppressi. Così in America Latina vi sono prelati che siedono alla stessa mensa di dittatori che hanno commesso genocidi e ne condividono le scelte, e quelli invece, come monsignor Romero, che stanno dalla parte degli oppressi e si sono fatti uccidere per difenderne le ragioni. In Sicilia vi è stato un padre Puglisi e vi sono sacerdoti che invece condividono la cultura mafiosa, che celebrano messa in chiese affollate dal popolo di mafia e dalla borghesia mafiosa. E poi ci sono i sacerdoti della cosiddetta palude, cioè quelli che non stanno né dalla parte della mafia, né dalla parte dell'antimafia, né con la destra, né con la sinistra, né col centro, ma che stanno solo dalla propria parte.

Ciascuno sceglie liberamente la propria Chiesa e il proprio Dio. Molto «democraticamente». Ci troviamo dinanzi ad un politeismo segreto ed occulto. Questo politeismo è segreto per l'occhio del mondo, ma è conosciuto dalle gerarchie ecclesiastiche che, tranne qualche eccezione, evitano accuratamente di scegliere e lasciano che i vari Dio convivano l'uno accanto all'altro.

Questo non scegliere è possibile anche perché, tranne poche eccezioni, la predicazione evangelica ha un taglio generalista che consente a chiunque un approccio non problematico. La predicazione nelle chiese è incentrata sul valore della famiglia, sulla morale sessuale, e su generici appelli alla solidarietà, all'amore per il prossimo, alla cosiddetta etica dell'intenzione, e ad una carità comoda perché si traduce quasi sempre nella cultura dell'elemosina.

Poiché la realtà supera sempre l'immaginazione, ricordo che in una delle indagini di Tangentopoli emerse che un famoso uomo politico, già ministro della Prima Repubblica, in occasione di una rischiosa operazione al cuore aveva fatto voto alla Madonna che nel caso di esito positivo avrebbe donato cento inilioni delle vecchie lire ad una parrocchia. Dopo il felice esito dell'operazione, l'uomo politico convocò un imprenditore imponendo gli di versare alla parrocchia l'importo di cento milioni che gli doveva quale tangente per un appalto pubblico. Nella richiesta per l'autorizzazione a procedere alla Camera, la procura della Repubblica scrisse che appariva grottesco pretendere di fare opere caritatevoli con il denaro altrui (l'episodio è raccontato in dettaglio in G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Editori Riu- niti, Roma 2002, p. 197).
La cultura dell'elemosina non costa nulla, soprattutto se l'elemosina viene fatta con i soldi pubblici. E una cultura che perpetua le catene della schiavitù economica e della sottomissione ai potenti, che lascia le cose come stanno e si traduce in un'acquiescenza all'esistente, in una complicità con l'ingiustizia sociale. La cultura dei diritti e della legalità invece è scomoda, perché costringe a prendere concretamente posizione dinanzi ai potenti della Terra, quelli che occupano i vertici della piramide sociale, e che sono responsabili dell'ingiustizia sociale, della povertà e del degrado metropolitano; un Moloch che costringe milioni di persone a sopravvivere in quartieri dormitorio degradati dove a volte l'economia dell'illegalità (dal contrabbando di tabacchi, alla prostituzione, allo spaccio di stupefacenti) diventa un'economia della sussistenza. Le esistenze di tanti che occupano i gradini più bassi della piramide sociale, si consumano in un ininterrotto via vai da quartieri abbandonati al degrado, discariche sociali a cielo aperto, alle carceri, altre discariche sociali assolutamente inumane ed anticristiane perché i detenuti sono costretti a vivere in celle sovraffollate, destinate a tre o quattro persone e dove si è obbligati a stare anche in dodici, in condizioni di assoluta promiscuità.

Quali sono state, tranne poche eccezioni, le risposte deÌle alte gerarchie ecclesiastiche a tutto ciò? Silenzio dinanzi alla corruzione sistemica, grave peccato contro la solidarietà sociale. Silenzio dinanzi alla borghesia mafiosa e paramafiosa. Silenzio dinanzi all'illegalità di massa di larghi settori delle classi dirigenti che contribuisce a generare a valle l'illegalità di massa delle classi popolari. Generici appelli ad una solidarietà che si traduce in una elemosina praticata con entusiasmo da queste stesse classi dirigenti spesso con il denaro pubblico. Questo segreto ed occulto politeismo della Chiesa cattolica produce a mio avviso un altro fenomeno segreto: il relativismo etico della Chiesa cattolica. L'accusa che in questi tempi viene rivolta alla cultura laica democratica è di alimentare una deriva relativistica dei valori. A fronte di quest'accusa, basterà ricordare che -come tra gli altri ha recentemente osservato Gustavo Zagrebelsky (vedi G. Zagrebelsky, .La Chiesa cattolica è compatibile con la democrazia?», MicroMega, n. 2/20062) -la democrazia si fonda sulla libertà di coscienza di tutti i cittadini.

La libertà di coscienza determina il pluralismo culturale ed il pluralismo dei valori. Il relativismo dei valori quindi non significa nichilismo, disprezzo per i valori, ma al contrario il rispetto per i valori degli altri. Le istituzioni pubbliche sono il luogo nel quale i diversi relativismi si confrontano in modo trasparente. Per decidere quale relativismo deve prevalere su un altro, si adotta il principio della maggioranza. Ma per evitare che il principio della maggioranza si trasformi nella dittatura della maggioranza, e che quindi il relativismo della maggioranza diventi assolutismo, lo Stato democratico di diritto prevede il frazionamento dei poteri, il loro reciproco bilanciamento ed una serie di garanzie per le minoranze.

Il relativismo della Chiesa cattolica invece è occulto ed è tenuto segreto. Ed infatti mentre da un lato i vertici ecclesiastici rivendicano di essere depositari di una verità senza se e senza ma e, proprio sulla base di questa verità assoluta, pretendono a volte di condizionare la legislazione statale, dall'altro lato nelle chiese e nelle parrocchie di tutto il mondo Dio, la verità e l'etica cattolica spesso si relativizzano, quasi balcanizzandosi.
Perché sui temi che riguardano la quotidiana fatica del vivere, il dolore causato dalla prepotenza e dalle ingiustizie sociali, a ciascuno è dato di scegliere il proprio Dio, e quindi la propria etica. Questo relativismo etico produce a mio parere il pericolo di una vera e propria scristianizzazione strisciante, di una diserzione dal cristianesimo. In tante, in troppe chiese, per milioni di fedeli, Dio parla per bocca di preti che frequentano senza problemi i salotti della borghesia corrotta e di quella mafiosa o le stanze del potere dei dittatori, e che riducono Dio a guardiano dei comportamenti da tenersi in camera da letto.

Questo non scegliere, alla base del relativismo di molte gerarchie cattoliche -fatte salve naturalmente alcune eccezioni illuminanti che restano tuttavia episodiche o minoritarie -non sempre è praticabile. A volte la realtà ha costretto le gerarchie cattoliche a scegliere. Ma la lezione della storia dimostra che non sempre questa scelta è stata a favore degli ultimi e degli oppressi, i quali sono stati troppo spesso abbandonati al loro destino. In occasione di un viaggio di lavoro a Buenos Aires, ho incontrato le cosiddette madri coraggio, che da tanti anni protestano sfilando in silenzio dinanzi ai palazzi del potere, per chiedere giustizia per i loro cari. In quel tempo la Spagna aveva chiesto l'estradizione di Pinochet per processarlo ed il Vaticano aveva espresso la propria contrarietà. Una di queste donne inviò ad una rivista una lettera che ho conservato e di cui mi colpì il seguente brano: «Lui [il papa] che avrebbe dovuto alzare una parola quando c'era la violenza, la disperazione, la strage nelle nostre famiglie, lui che avrebbe dovuto generare tutta la reazione internazionale perché sapeva cosa stava accadendo, lui ha taciuto, abbandonandoci nelle mani degli assassini e dei torturatori. Solo noi sudamericani sappiamo bene che cosa è la curia argentina, cilena, sudamericana. Ed ora che dopo tanti tentativi, tante speranze, pensavamo che si cominciasse finalmente ad ottenere qualche risposta internazionale alla nostra storia, al nostro dolore, ancora intatto, lui; finalmente dopo tanto silenzio, parla. Ma parla per sottrarre alla giustizia il capo dei nostri assassini, per dire no ad una condanna per i delitti aberranti, terribili che ci porteremo addosso per tutta la vita».

È vero che in America Latina ha operato anche monsignor Romero, il quale è stato ucciso perché difendeva le ragioni dei campesinos. Ma mi pare che le gerarchie cattoliche non abbiano scelto monsignor Romero, se è vero, come è vero, che tutta la teologia della liberazione è stata messa a tacere e che il processo di beatificazione di monsignor Romero è rimasto bloccato per sette anni.
Ma chi decide queste ed altre scelte? O chi decide le non scelte? Forse il popolo cattolico? Certamente no. E qui veniamo al nodo cruciale del rapporto tra democrazia e Chiesa. E diffusa anche all'interno dello stesso mondo cattolico
l'opinione che, chiusa la breve parentesi conciliare, si è assistito ad una rivincita delle burocrazie e dei vertici vaticani. La storia postconciliare sembra riconnettersi con assoluta continuità alla storia preconciliare. Alcuni parlano del canto del cigno del cattolicesimo medioevale. Sembra di essere ritornati alla restaurazione di una monarchia assoluta, che concentra tutto il potere all'interno della Chiesa in un ristrettissimo vertice. Tra questo vertice e il popolo di base non esiste una vera corrente, una vera osmosi. Vi è una frattura fra questa realtà di base ed i vertici, che sembrano divenire sempre più autoreferenziali.

Mi pare che all'interno della Chiesa cattolica si stia vivendo una vicenda analoga e parallela a quella che travaglia la storia del potere nella laicità. Si assiste ad una ristrutturazione oligarchica e verticistica del potere e ad una crescente gestione mediatica delle masse. Il cattolicesimo sembra sempre più ridursi ad immagine mediatica, a miracolismo, a sceneggiati televisivi sulla vita dei santi, a vari minuti di Vaticano ogni giorno in tv: dovrebbe far riflettere che i media di regime, che hanno silenziato chiunque si sia rivelato scomodo per il potere, che hanno censurato l'informazione sui fatti, che ignorano completamente le esperienze di base del popolo cattolico, facciano invece da megafono ai vertici vaticani. Come è stato osservato, il vero nemico del cristianesimo non è stato Diocleziano, ma Costantino. Gesù è stato ucciso democraticamente dal potere politico e religioso. Il processo a Gesù è emblematico: il popolo, gestito demagogicamente dal potere, scelse Barabba. Gesù viene prima ucciso fisicamente dal potere ecclesiastico e politico, e poi viene ucciso culturalmente dal costantinismo che lo fa diventare instrumentum regni.

E allora il problema, ieri come oggi, resta quello di spezzare il rapporto perverso tra fede e potere. Spezzare questo rapporto significa restituire la voce di Dio e di Cristo agli uomini, perché nel corso della storia lo spazio tra l'uomo e Dio è stato troppo a lungo sequestrato dal potere. Ritengo che ciò sia compito soprattutto dei credenti e che per assolvere questo compito sia sufficiente essere coerenti con l'insegnamento di Cristo, recuperare l'insegnamento antipotere di Cristo.

A me pare che uno dei nuclei del messaggio di Gesù sia proprio la sfida ai potenti, affinché prendano atto della loro complicità nella sofferenza degli uomini. Solo i poveri sono innocenti, disse, solo i miserabili sonò senza peccato, solo chi non ha pane è senza colpa. E a proposito del dovere di scegliere, mi pare che l'etica laica e l'eticacristiana coincidano nel denunciare l'immoralità del non scegliere. Sartre scrisse: «L'etica consiste nello scegliere, noi siamo le nostre scelte». E Gesù nel Vangelo (Luca, 12, 51) dice: «Voi pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma piuttosto divisione».

Quale divisione? La divisione di chi sceglie. E sceglie di stare dalla parte degli ultimi e degli oppressi. Una scelta che si traduce nella carità attiva per la cultura dei diritti, per la liberazione dalle catene del bisogno, una scelta che condannò Gesù a morte e che sempre nel corso della storia ha condannato a morte chi ha osato schierarsi contro il potere. La lezione di Cristo dunque a me sembra esattamente opposta a quella curiale della non scelta o della scelta a favore del potere. A volte, quando a Palermo mi accade di partecipare a cerimonie funebri per commemorare le vittime di tanti omicidi mafiosi, mi guardo intorno e chiedo a me stesso: chissà quanti assassini, quanti sepolcri imbiancati ci sono qui, in questa chiesa, accanto a me, in pace con sé stessi e con Dio?

In quei momenti chiudo gli occhi; e mi piace immaginare che un giorno qualcuno scriva sulle facciate di tutte le chiese di Palermo la stessa frase che un grande vescovo brasiliano aveva dipinto sulla facciata della sua cattedrale: «Il mondo si divide tra oppressori e oppressi. Tu, cristiano, che stai per entrare, da che parte stai?».

(Già Pubblicato su ItaliaBlogOltre)

Elogio Dell'Ateismo

di Carlo Augusto Viano

[da Micromega n°5 del 30/3/2006]

Parlate di ateismo ed evocherete pudibonde riserve: non si sa se Dio esista oppure no, non si può dimostrare che esista ma neppure che non esista, ciò che conosciamo è poco, tutto intorno a noi è mistero, e nel mistero ci può stare pure il Padreterno. I filosofi chiamano una cosa del genere agnosticismo e sulla timidezza degli agnostici ha sempre fatto leva l'apologetica religiosa, che sbandiera l'indimostrabilità della non esistenza di Dio, approfitta del senso del mistero che le persone sensibili e consapevoli dei limiti della conoscenza umana dovrebbero coltivare e si fa forte del fatto che le credenze religiose sono più originarie rispetto a qualsiasi critica della religione.

In realtà le cosiddette prove dell'esistenza di Dio sono dimostrazioni fittizie, che si avvalgono di premesse arbitrarie, dalle quali ricavano conclusioni in modo arbitrario: pertanto l'esistenza di Dio non è oggetto di una proposizione indecidibile, perché le proposizioni indecidibili debbono essere formate entro teorie che siano ben altra cosa rispetto alle dottrine teologiche disponibili. Né è significativo il fatto che le credenze religiose precedano le contestazioni ateistiche, perché in generale le credenze che il progresso dell'esperienza e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche hanno dimostrato infondate precedono le critiche destinate a demolirle. Inoltre le credenze religiose effettive sono molto varie ed è impossibile ricondurle a un corpo omogeneo, attribuibile al genere umano, da recare come prova del loro carattere originario, se non addirittura innato. Né si ricava qualcosa dalla considerazione dei limiti delle conoscenze effettive, da quelle di esperienza più o meno dirette a quelle che esigono costruzioni teoriche più o meno elaborate.

I limiti esistono, ma ciò non autorizza ad ammettere tipi di conoscenza diversi da quelli dei quali si riconoscono i limiti. Quando si parla di «misteri» per alludere alle molte cose che non si sanno, ci si riferisce a domande senza risposta perché le risposte non sono per il momento disponibili, o perché esse segnano i limiti funzionali del sistema di conoscenza impiegato o perché le domande sono improprie. I misteri quotidiani riguardano eventi particolari sui quali non si dispone di testimonianze o prove adeguate: il mistero della morte del giornalista Pecorelli o del deputato Lima, per citare due dei tanti «misteri d'Italia», potrebbero essere svelati se qualche personaggio influente parlasse.

I misteri in senso proprio sono quelli contenuti nei libri sacri e nelle tradizioni religiose, cioè le cose incomprensibili e le imposture che vi si trovano. Gli uomini di fede ovviamente li prendono sul serio, mentre i non credenti con il senso del mistero esitano a chiamare quelle cose con il loro nome e sospendono il giudizio, dimenticando che la religione è più una faccenda di credenze, riti e testi e che ciò sminuisce molto l'importanza di dimostrazioni e dottrine teologiche. Che l'asserzione dell'esistenza di Dio non sia la cosa più importante per le religioni è provato dal fatto che esistono religioni importanti considerate atee.
Nelle religioni bibliche la discussione sull'ateismo è entrata con il platonismo, perché è stato Platone a formulare una teoria esplicita dell'ateismo e a classificarne le forme, so$tenendo che esso consiste nella negazione esplicita dell'esistenza degli dei, nel ritenere che essi possano essere indotti da offerte o preghiere a concedere favori, oppure nel negare che essi governino il mondo e si prendano cura degli esseri umani. Platone cercava di inventare lui una religione filosofica, che era un travisamento delle religioni reali, nelle quali le asserzioni teoriche sull'esistenza delle divinità non sono molto importanti, mentre contano pratiche, tabù, paura degli dei e fiducia in loro.

Il platonismo si è proposto di combattere l'ateismo e ha inserito nelle religioni bibliche una vera e propria teologia, che i non credenti hanno preso sul serio, supponendo che fosse possibile dar vita a una religione razionale o naturale, oppure ammettendo che l'oggetto della teologia potesse non essere conoscibile con i mezzi ordinari. Tutto ciò ha condotto a sminuire l'importanza di credenze e cerimonie e a presumere che su poche proposizioni sulla divinità si potesse trovare un accordo tra seguaci di fedi diverse e anche tra membri di società religiose e chi non apparteneva a nessuna di esse.

Così si è fatta strada l'idea che sia impossibile essere veramente e completamente atei, perché anche chi respinge credenze e pratiche particolari ammette qualcosa di simile all'idea di Dio, invariante rispetto a tutte le forme religiose storiche. In realtà in società sospettose, come quelle antiche, o repressive, come quelle dominate dalle religioni bibliche, riconoscere l'esistenza di Dio, magari in tennini generali, poteva essere un modo per dissimulare un sostanziale ateismo ed evitare persecuzioni, ma chi muoveva dall'idea che un autentico ateismo fosse impossibile ha respinto questa interpretazione e ha considerato quella di ateismo un' accusa usata nelle polemiche filosofiche per screditare gli avversari. Molti storici hanno adottato questa interpretazione, colpendo le posizioni ateistiche con una sorta di censura culturale e facendo passare per devoti personaggi che non lo erano per niente.

Già l'atomismo antico aveva dato un quadro della natura in cui era difficile inserire l'opera degli dei, e lo sviluppo della scienza moderna ha reso più radicale l'opposizione tra l'interpretazione scientifica della realtà e la teologia. Qualche volta la natura stessa è stata divinizzata, qualche altra si è ritenuto che tutta la realtà fosse un sistema spiegabile con leggi puramente scientifiche. Non c'è dubbio che i successi della scienza moderna nella spiegazione dell'universo abbiano indebolito le fedi religiose, ma questo processo si è verificato nella tradizione occidentale, dominata dalla filosofia classica, in cui la questione teorica dell'ateismo ha avuto una posizione centrale. La classificazione platonica dell'ateismo permetteva di trovare sempre qualche clausola di salvataggio. In fondo perfino Epicuro, che negava la provvidenza divina e che perciò, secondo Platone, doveva essere considerato ateo, non negava l'esistenza degli dei, e dunque si poteva ritenere che proprio ateo non fosse.

Se non si prendono troppo sul serio le teologie, emerge un altro aspetto dell'ateismo. Già i filosofi scolastici lo sapevano e si domandavano se la legge morale (il decalogo,per intendersi) esigesse il riconoscimento dell'esistenza di Dio o se esso fosse valido anche senza essere interpretato come un comando divino. Si dovrebbero cioè praticare i comandamenti o tutti ,i comandamenti anche se Dio non ci fosse? E chiaro che in questo caso alcuni di essi, per esempio quelli che impongono di riconoscere la sua esistenza o la sua unicità o di non bestemmiarlo o di osservare i riti, non avrebbero senso, ma altri potrebbero restare validi.

Se si affronta la questione dell'ateismo da questo punto di vista, diventa più difficile eludere la sfida che esso presenta, assumendo una posizione moderata e agnostica, perché entrano in gioco i modi di vita delle persone. L'apologetica cattolica ha introdotto il concetto di «ateismo pratico», per indicare forme di vita che escludono il riferimento alla divinità, anche se non accompagnate dalla negazione esplicita della sua esistenza. Ci sarebbero perciò condotte che prescindono dal riferimento alla divinità e che sono moralmente scorrette. Per sostenere una cosa del genere bisogna assumere che esiste un solo tipo di condotta corretto e moralmente accettabile e che questo tipo di condotta esiga un riferimento alla divinità. Ne deriva la condanna del relativismo etico, cioè la negazione della possibilità che esistano codici di comportamento legittimi disparati.

Curiosamente coloro che vanno a caccia dell'ateismo pratico hanno qualcosa in comune con coloro che negano l'efficacia morale della credenza nella divinità, ma ritengono che esista un unico codice morale: il punto di dissidio è costituito dalla connessione tra quel codice e l'idea di Dio. Per gli assolutisti etici agnostici il codice morale unico sussisterebbe anche se Dio non esistesse e anzi il riferimento alla divinità potrebbe turbare la purezza delle intenzioni morali, mentre per gli assolutisti etici religiosi l'esistenza di Dio è una premessa necessaria di quel codice.

Di fronte all'elaborazione teologica delle religioni bibliche ci si è dunque rifugiati dietro due atteggiamenti ugualmente timidi, suggeriti dal pudore teorico, che ha generato l'agnosticismo, e dalla ricerca di accordo etico, che ha suggerito l'assolutismo etico, per il quale esiste un'unica legge morale, valida indipendentemente dall'esistenza di Dio. Questi due atteggiamenti hanno impedito di rendersi conto che la negazione della divinità permette di liberare i comportamenti umani da vincoli e pregiudizi.

Epicuro poteva anche asserire che gli dei esistono ma, sostenendo che non si occupano degli uomini, intendeva liberare l'umanità dalla paura degli dei e proporre una forma di moralità diversa da quella tradizionale e consistente nella ricerca assennata del piacere, fondata sulla previsione del futuro. Nelle religioni storiche la credenza che esista un Dio supremo non ha affatto condotto al riconoscimento di un codice morale universale unico, ma tutt'al più alla pretesa di imporre regole di vita particolari come se fossero dettami di una legge universale. Eppure il riferimento alla legge universale ha contaminato l'assolutismo etico agnostico, che ha coltivato il miraggio di un codice universale di comportamento valido anche se Dio non esistesse e capace di soddisfare credenti e non credenti.

L'idea che esista una legge morale unica è figlia del presupposto del governo divino del mondo e una filosofia atea deve avere il coraggio di respingere non soltanto l'esistenza di Dio, ma anche l'idea che il mondo sia un sistema suscettibile di essere governato da una divinità. Le leggi sono ordinamenti positivi che spesso vengono intesi come comandi, eventualmente sanzionati. Sebbene questo modello si applichi soltanto parzialmente perfino alle leggi positive codificate e sia meno convincente nel caso degli ordinamenti con una forte base giurisprudenziale, a partire di qui si è foggiata l'idea di una legge morale universale intesa come un insieme di comandi. Caduta l'idea di un dio re, che emana le leggi, la legge morale universale è stata presentata come una specie di generalizzazione delle leggi positive: se non era promulgata dal reggitore divino del mondo, la legge morale non scritta era in realtà inscritta nella natura umana e magari rilevabile con la ragione.

Una volta riconosciuto che l'interpretazione delle leggi positive come comandi appare per molti versi inadeguata, risulta difficile applicare quel modello agli impegni morali. L'ateismo, sgombrando il campo dall'idea di un legislatore sovrano universale, indebolisce anche l'idea di una legge universale non scritta e fa del dominio di solito assegnato all'etica un campo in cui si prendono impegni, si formano aspettative, si lasciano trasparire linee di condotta, un campo nel quale si esercitano pienamente previsioni, adattamenti, scommesse, tutte cose contro le quali i moralisti teologi o eredi della teologia hanno innalzato muri di diffidenza. Ciò non toglie che gli impegni morali possano anche generare stabilità e prevedibilità ai comportamenti, ma proprio perché sono impegni e non sono leggi positive, che danno alle condotte un'uniformità grossolana e che consentono adattamenti soltanto attraverso elusioni e mutamenti spesso non trasparenti.

La vecchia convinzione di atei alla Plutarco e alla Bayle, che una società di atei può funzionare meglio di una società di devoti, non è stata sviluppata abbastanza, ma sembra piuttosto verosimile che una società libera dal timore divino e senza la sorveglianza di un sovrano divino non soltanto sia più varia e piacevole, ma anche meno fanatica, più ospitale e più disposta a intrecciare vite diverse, lasciando che si adattino le une alle altre.

(Già Pubblicato su ItaliaBlogOltre)