2.4.06

Elogio Dell'Ateismo

di Carlo Augusto Viano

[da Micromega n°5 del 30/3/2006]

Parlate di ateismo ed evocherete pudibonde riserve: non si sa se Dio esista oppure no, non si può dimostrare che esista ma neppure che non esista, ciò che conosciamo è poco, tutto intorno a noi è mistero, e nel mistero ci può stare pure il Padreterno. I filosofi chiamano una cosa del genere agnosticismo e sulla timidezza degli agnostici ha sempre fatto leva l'apologetica religiosa, che sbandiera l'indimostrabilità della non esistenza di Dio, approfitta del senso del mistero che le persone sensibili e consapevoli dei limiti della conoscenza umana dovrebbero coltivare e si fa forte del fatto che le credenze religiose sono più originarie rispetto a qualsiasi critica della religione.

In realtà le cosiddette prove dell'esistenza di Dio sono dimostrazioni fittizie, che si avvalgono di premesse arbitrarie, dalle quali ricavano conclusioni in modo arbitrario: pertanto l'esistenza di Dio non è oggetto di una proposizione indecidibile, perché le proposizioni indecidibili debbono essere formate entro teorie che siano ben altra cosa rispetto alle dottrine teologiche disponibili. Né è significativo il fatto che le credenze religiose precedano le contestazioni ateistiche, perché in generale le credenze che il progresso dell'esperienza e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche hanno dimostrato infondate precedono le critiche destinate a demolirle. Inoltre le credenze religiose effettive sono molto varie ed è impossibile ricondurle a un corpo omogeneo, attribuibile al genere umano, da recare come prova del loro carattere originario, se non addirittura innato. Né si ricava qualcosa dalla considerazione dei limiti delle conoscenze effettive, da quelle di esperienza più o meno dirette a quelle che esigono costruzioni teoriche più o meno elaborate.

I limiti esistono, ma ciò non autorizza ad ammettere tipi di conoscenza diversi da quelli dei quali si riconoscono i limiti. Quando si parla di «misteri» per alludere alle molte cose che non si sanno, ci si riferisce a domande senza risposta perché le risposte non sono per il momento disponibili, o perché esse segnano i limiti funzionali del sistema di conoscenza impiegato o perché le domande sono improprie. I misteri quotidiani riguardano eventi particolari sui quali non si dispone di testimonianze o prove adeguate: il mistero della morte del giornalista Pecorelli o del deputato Lima, per citare due dei tanti «misteri d'Italia», potrebbero essere svelati se qualche personaggio influente parlasse.

I misteri in senso proprio sono quelli contenuti nei libri sacri e nelle tradizioni religiose, cioè le cose incomprensibili e le imposture che vi si trovano. Gli uomini di fede ovviamente li prendono sul serio, mentre i non credenti con il senso del mistero esitano a chiamare quelle cose con il loro nome e sospendono il giudizio, dimenticando che la religione è più una faccenda di credenze, riti e testi e che ciò sminuisce molto l'importanza di dimostrazioni e dottrine teologiche. Che l'asserzione dell'esistenza di Dio non sia la cosa più importante per le religioni è provato dal fatto che esistono religioni importanti considerate atee.
Nelle religioni bibliche la discussione sull'ateismo è entrata con il platonismo, perché è stato Platone a formulare una teoria esplicita dell'ateismo e a classificarne le forme, so$tenendo che esso consiste nella negazione esplicita dell'esistenza degli dei, nel ritenere che essi possano essere indotti da offerte o preghiere a concedere favori, oppure nel negare che essi governino il mondo e si prendano cura degli esseri umani. Platone cercava di inventare lui una religione filosofica, che era un travisamento delle religioni reali, nelle quali le asserzioni teoriche sull'esistenza delle divinità non sono molto importanti, mentre contano pratiche, tabù, paura degli dei e fiducia in loro.

Il platonismo si è proposto di combattere l'ateismo e ha inserito nelle religioni bibliche una vera e propria teologia, che i non credenti hanno preso sul serio, supponendo che fosse possibile dar vita a una religione razionale o naturale, oppure ammettendo che l'oggetto della teologia potesse non essere conoscibile con i mezzi ordinari. Tutto ciò ha condotto a sminuire l'importanza di credenze e cerimonie e a presumere che su poche proposizioni sulla divinità si potesse trovare un accordo tra seguaci di fedi diverse e anche tra membri di società religiose e chi non apparteneva a nessuna di esse.

Così si è fatta strada l'idea che sia impossibile essere veramente e completamente atei, perché anche chi respinge credenze e pratiche particolari ammette qualcosa di simile all'idea di Dio, invariante rispetto a tutte le forme religiose storiche. In realtà in società sospettose, come quelle antiche, o repressive, come quelle dominate dalle religioni bibliche, riconoscere l'esistenza di Dio, magari in tennini generali, poteva essere un modo per dissimulare un sostanziale ateismo ed evitare persecuzioni, ma chi muoveva dall'idea che un autentico ateismo fosse impossibile ha respinto questa interpretazione e ha considerato quella di ateismo un' accusa usata nelle polemiche filosofiche per screditare gli avversari. Molti storici hanno adottato questa interpretazione, colpendo le posizioni ateistiche con una sorta di censura culturale e facendo passare per devoti personaggi che non lo erano per niente.

Già l'atomismo antico aveva dato un quadro della natura in cui era difficile inserire l'opera degli dei, e lo sviluppo della scienza moderna ha reso più radicale l'opposizione tra l'interpretazione scientifica della realtà e la teologia. Qualche volta la natura stessa è stata divinizzata, qualche altra si è ritenuto che tutta la realtà fosse un sistema spiegabile con leggi puramente scientifiche. Non c'è dubbio che i successi della scienza moderna nella spiegazione dell'universo abbiano indebolito le fedi religiose, ma questo processo si è verificato nella tradizione occidentale, dominata dalla filosofia classica, in cui la questione teorica dell'ateismo ha avuto una posizione centrale. La classificazione platonica dell'ateismo permetteva di trovare sempre qualche clausola di salvataggio. In fondo perfino Epicuro, che negava la provvidenza divina e che perciò, secondo Platone, doveva essere considerato ateo, non negava l'esistenza degli dei, e dunque si poteva ritenere che proprio ateo non fosse.

Se non si prendono troppo sul serio le teologie, emerge un altro aspetto dell'ateismo. Già i filosofi scolastici lo sapevano e si domandavano se la legge morale (il decalogo,per intendersi) esigesse il riconoscimento dell'esistenza di Dio o se esso fosse valido anche senza essere interpretato come un comando divino. Si dovrebbero cioè praticare i comandamenti o tutti ,i comandamenti anche se Dio non ci fosse? E chiaro che in questo caso alcuni di essi, per esempio quelli che impongono di riconoscere la sua esistenza o la sua unicità o di non bestemmiarlo o di osservare i riti, non avrebbero senso, ma altri potrebbero restare validi.

Se si affronta la questione dell'ateismo da questo punto di vista, diventa più difficile eludere la sfida che esso presenta, assumendo una posizione moderata e agnostica, perché entrano in gioco i modi di vita delle persone. L'apologetica cattolica ha introdotto il concetto di «ateismo pratico», per indicare forme di vita che escludono il riferimento alla divinità, anche se non accompagnate dalla negazione esplicita della sua esistenza. Ci sarebbero perciò condotte che prescindono dal riferimento alla divinità e che sono moralmente scorrette. Per sostenere una cosa del genere bisogna assumere che esiste un solo tipo di condotta corretto e moralmente accettabile e che questo tipo di condotta esiga un riferimento alla divinità. Ne deriva la condanna del relativismo etico, cioè la negazione della possibilità che esistano codici di comportamento legittimi disparati.

Curiosamente coloro che vanno a caccia dell'ateismo pratico hanno qualcosa in comune con coloro che negano l'efficacia morale della credenza nella divinità, ma ritengono che esista un unico codice morale: il punto di dissidio è costituito dalla connessione tra quel codice e l'idea di Dio. Per gli assolutisti etici agnostici il codice morale unico sussisterebbe anche se Dio non esistesse e anzi il riferimento alla divinità potrebbe turbare la purezza delle intenzioni morali, mentre per gli assolutisti etici religiosi l'esistenza di Dio è una premessa necessaria di quel codice.

Di fronte all'elaborazione teologica delle religioni bibliche ci si è dunque rifugiati dietro due atteggiamenti ugualmente timidi, suggeriti dal pudore teorico, che ha generato l'agnosticismo, e dalla ricerca di accordo etico, che ha suggerito l'assolutismo etico, per il quale esiste un'unica legge morale, valida indipendentemente dall'esistenza di Dio. Questi due atteggiamenti hanno impedito di rendersi conto che la negazione della divinità permette di liberare i comportamenti umani da vincoli e pregiudizi.

Epicuro poteva anche asserire che gli dei esistono ma, sostenendo che non si occupano degli uomini, intendeva liberare l'umanità dalla paura degli dei e proporre una forma di moralità diversa da quella tradizionale e consistente nella ricerca assennata del piacere, fondata sulla previsione del futuro. Nelle religioni storiche la credenza che esista un Dio supremo non ha affatto condotto al riconoscimento di un codice morale universale unico, ma tutt'al più alla pretesa di imporre regole di vita particolari come se fossero dettami di una legge universale. Eppure il riferimento alla legge universale ha contaminato l'assolutismo etico agnostico, che ha coltivato il miraggio di un codice universale di comportamento valido anche se Dio non esistesse e capace di soddisfare credenti e non credenti.

L'idea che esista una legge morale unica è figlia del presupposto del governo divino del mondo e una filosofia atea deve avere il coraggio di respingere non soltanto l'esistenza di Dio, ma anche l'idea che il mondo sia un sistema suscettibile di essere governato da una divinità. Le leggi sono ordinamenti positivi che spesso vengono intesi come comandi, eventualmente sanzionati. Sebbene questo modello si applichi soltanto parzialmente perfino alle leggi positive codificate e sia meno convincente nel caso degli ordinamenti con una forte base giurisprudenziale, a partire di qui si è foggiata l'idea di una legge morale universale intesa come un insieme di comandi. Caduta l'idea di un dio re, che emana le leggi, la legge morale universale è stata presentata come una specie di generalizzazione delle leggi positive: se non era promulgata dal reggitore divino del mondo, la legge morale non scritta era in realtà inscritta nella natura umana e magari rilevabile con la ragione.

Una volta riconosciuto che l'interpretazione delle leggi positive come comandi appare per molti versi inadeguata, risulta difficile applicare quel modello agli impegni morali. L'ateismo, sgombrando il campo dall'idea di un legislatore sovrano universale, indebolisce anche l'idea di una legge universale non scritta e fa del dominio di solito assegnato all'etica un campo in cui si prendono impegni, si formano aspettative, si lasciano trasparire linee di condotta, un campo nel quale si esercitano pienamente previsioni, adattamenti, scommesse, tutte cose contro le quali i moralisti teologi o eredi della teologia hanno innalzato muri di diffidenza. Ciò non toglie che gli impegni morali possano anche generare stabilità e prevedibilità ai comportamenti, ma proprio perché sono impegni e non sono leggi positive, che danno alle condotte un'uniformità grossolana e che consentono adattamenti soltanto attraverso elusioni e mutamenti spesso non trasparenti.

La vecchia convinzione di atei alla Plutarco e alla Bayle, che una società di atei può funzionare meglio di una società di devoti, non è stata sviluppata abbastanza, ma sembra piuttosto verosimile che una società libera dal timore divino e senza la sorveglianza di un sovrano divino non soltanto sia più varia e piacevole, ma anche meno fanatica, più ospitale e più disposta a intrecciare vite diverse, lasciando che si adattino le une alle altre.

(Già Pubblicato su ItaliaBlogOltre)

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